Malattia e trasformazione

Malattia e trasformazione

“Ho 54 anni, una vita da schifo e ho il cancro” Così inizia il libro  di Alessandra Olgiati, Quel giorno che ho danzato nel bosco”. Nonostante una diagnosi che le dà poche possibilità di sopravvivenza, Alessandra guarisce e oggi è radiosa, piena di vita e soprattutto completamente diversa da ciò che è stata prima. Un processo, ci dice Alessandra, alla portata di tutti. Basta “scegliere” di cambiare le cose che non vanno bene nella nostra vita, avere il coraggio di farlo, senza guardarsi indietro. Decidere di voler guarire!

Il tuo libro parla di una profonda trasformazione, innescata dallo shock della malattia. Si sente che a un certo punto ti sei messa totalmente in gioco, rinunciando anche ai limiti imposti dalla tua stessa personalità, dall’immagine che ti eri sempre fatta di te. È stato proprio così?
È stato così ed è stata una grande fortuna questa rinuncia all’ego. L’ego è proprio quello che ci frega. Il mio percorso di guarigione è stato innanzitutto un cammino di consapevolezza fatto di tante piccole rivelazioni. Ci sono stati momenti di grande emozione, di paura, di tristezza, ma anche momenti di gioia così intensa che ancora oggi mi commuovo quando ci penso.

Prima della malattia non avevi mai vissuto questa gioia?
Credo che noi tutti nasciamo dotati di grande gioia, di un amore così intenso, di un potere indescrivibile. Ma, man mano che cresciamo, ci affidiamo ai genitori, agli insegnanti e iniziamo un percorso fatto di condizionamenti, di paure. Per me questo processo è stato molto forte, perché ho avuto una mamma molto severa. Mio padre era medico e il suo lavoro lo impegnava totalmente, quindi la nostra educazione era affidata alla mamma che ci cresceva in modo rigido e bigotto. Era tutto un: “Devi fare questo”, “Non fare quello”, “Guarda i tuoi fratelli come sono più bravi di te”. Il bambino pensa che, per avere l’amore dei genitori deve conformarsi al modello che gli viene proposto come positivo.  In seguito, se non interviene niente che lo faccia cambiare, finisce con l’identificarsi con il modello, come se facesse parte di un programma, e dimentica chi è veramente. Se, il giorno prima della diagnosi di cancro, qualcuno mi avesse chiesto come stavo, avrei risposto che stavo bene. In fin dei conti avevo tutto quanto si può desiderare: un lavoro abbastanza soddisfacente, un compagno con il quale tutto sommato andavo d’accordo, una figlia, la sua, da crescere, il mio amato cane… La mia vita nell’insieme era persino migliore di quella di tanti altri e quindi non vedevo per quale motivo avrei dovuto cercare qualcosa di diverso.
Poi, durante la guarigione, ho cominciato a cambiare punto di vista e mi sono chiesta per quale motivo non dovevo cercare qualcosa di diverso, perché non mi meritavo di meglio. Per me la maggiore scoperta è stata proprio questa: non ero me stessa ma mi ero identificata con un modello che mi era stato inculcato fin dalla più tenera infanzia e che in seguito ho continuato a impormi da sola anche da adulta, un po’ come un disco rotto che continua a suonare le stesse note. Per me il punto debole erano l’autostima e il bisogno di sentirmi amata. Perciò attiravo sempre uomini che dovevo salvare: alcolizzati, drogati, malati psichici. Li attiravo perché vibravo sulle loro frequenze. In realtà pensavo di dover comprare l’amore con la dedizione e il sacrificio. Il mio ultimo compagno, quello di cui parlo nel libro, non aveva mai lavorato a tempo pieno come me, che in più mi occupavo della casa e di sua figlia. Eppure se, tornando dal lavoro, lo trovavo a oziare sul divano, invece di arrabbiarmi gli dicevo: “Non ti preoccupare, taglio io l’erba in giardino”. C’è voluta la malattia perché mi permettessi di dire di no. Prima avevo l’abitudine di assumermi tutti i compiti, tutte le fatiche.

Quindi se non ci fosse stata la malattia saresti andata avanti così?
Ho paragonato la mia malattia (a me non piace chiamarla tale) a una grandissima amica che un giorno ha bussato alla mia porta e mi ha detto: “Ehi, c’è qualcosa che non va”.
Ero molto tosta, molto presuntuosa nel mio sacrificarmi per gli altri. Ero convinta di arrivare dappertutto, di farcela sempre. Mi tenevo sempre occupata per non fermarmi, anche perché, se lo avessi fatto, forse avrei capito che avevo sbagliato tutto. Del resto oggi vedo bene che certe persone si occupano degli altri per non fermarsi. Alcuni non riescono nemmeno a stare in casa da soli. Devono accedere la televisione, telefonare, fare qualcosa perché nel silenzio l’anima potrebbe parlare e potrebbero trapelare delle verità…

Eri così anche tu?
Ero così. Mi ero identificata con quel programma ed ero convinta che i miei pensieri, le mie azioni, le mie emozioni ed il mio corpo fisico fossero quel programma. Ma quella persona si era ammalata di cancro… Ho percepito che cambiando il modello potevo stare meglio, avvicinarmi sempre più a chi io sono veramente. Più mi avvicinavo a questo nuovo ” stato dell`Essere ” e più mi accorgevo che la mia energia vitale aumentava e che anche la salute migliorava. Quando mi sono trovata di fronte a una diagnosi tanto brutta, mi sono detta che se dovevo morire come dicevano i medici, perlomeno volevo vivere bene i miei ultimi mesi di vita. Per fare ciò intuivo che la “vera” Alessandra avrebbe dovuto emergere, costi quel che costi. La guarigione è stata per me la conseguenza di questa consapevolezza.

Durante la malattia hai preso delle iniziative temerarie secondo i medici, come quella di andare all’estero, di partire da sola in auto e così via…
Ad un certo punto avevo la certezza che ce l’avrei fatta e in effetti ho iniziato ad avere un’energia incredibile… Oggi so che la guarigione dipende dall’energia vitale. Nessuno me lo aveva mai detto, eppure è così ovvio.

Hai trovato qualcuno che la pensava come te?
Purtroppo no. Attorno a me non c’era nessuno che la pensasse così. Perciò ho deciso di scrivere un libro anche se mi è costato una gran fatica. L’ho fatto per dare una mano ad altre persone che, come dice Joe Dispenza, non hanno il coraggio di attraversare il fiume. Non è una decisione facile. È un po’ come nel film Matrix quando il protagonista deve scegliere tra la pastiglia che lascia tutto com’è e quella che porta al cambiamento: sai quello che lasci ma non sai quello che trovi. Ma Einstein diceva che non si può cambiare un risultato con gli stessi pensieri che lo hanno generato. Il corpo fisico è il risultato dei pensieri, delle azioni che sono stati i nostri fino a quel momento. La malattia è la conseguenza di un certo modo di agire, di sentire, di pensare.

Pensi che il “salto quantico” possa avvenire anche senza la malattia?
Non augurerei a nessuno di passare da una prova del genere. Tuttavia continuo a considerare la malattia come una grossa opportunità che mi è stata data, un aut-aut che mi ha spinta ad affidarmi con fiducia al cambiamento, consapevole che peggio di così non poteva essere. Per questo motivo ho scritto il libro. Sento che il mio compito oggi è di far conoscere la mia esperienza perché manca una voce del genere.

Quindi oggi aiuti le persone malate a guarirsi?
Ho sperimentato su me stessa il cambiamento e quindi di conseguenza la guarigione. Ora so che quello che emano è ciò che sono realmente. Non ho bisogno di tante parole e nemmeno di diplomi appesi al muro. Sono certa che quello che ho fatto tutti lo possono fare. Devono solo volerlo veramente. Essere responsabili. Prendere in mano la propria vita. È la percezione che noi abbiamo delle cose che crea la nostra realtà. Ci siamo identificati in quel modello, ma ora abbiamo una grandissima opportunità di cambiarlo. Non esiste nessun colpevole. Siamo vittime di vittime.  E’ la vita la nostra scuola.
Ecco, ciò che dico quando le persone chiedono come ho fatto. Esiste però una legge divina che recita più o meno così: “Non si può aiutare nessuno che non vuole essere aiutato”. Ogni cammino è un cammino unico e personale.

E i medici come vedono la tua esperienza e la tua azione di diffusione?
Alla presentazione del mio libro, c’erano circa centoventotto persone e tra queste ho visto alcuni medici “travestiti da esseri umani” come ho detto. La cosa mi ha fatto molto piacere, perché è una prova che, nell’insieme, la nuova coscienza si sta espandendo sempre più.  Io voglio essere quel piccolo seme piantato nella coscienza di chi lo vorrà, quel “messaggio dentro la bottiglia” che ho deciso di lanciare in quell’oceano di paura e di dolore, come scrivo nel libro.

Il bosco ha avuto un ruolo importante nel tuo processo di guarigione, tanto che figura anche nel titolo del libro. Mi potresti dire in che modo?
Il bosco mi ha allontanato dalle mie paure. Avevo sempre pensato che l’antitesi dell’amore fosse l’odio, invece ho scoperto che è la paura. Avevo sempre paura: all’ospedale, a casa, avevo sempre paura e di notte le paure si amplificavano ancora di più. Le persone facevano il tifo per me, ma lo facevano male, proiettando su di me ancora altre paure.
Nel bosco liberavo la mente, cosi sempre oberata da mille pensieri, e stavo nel presente, scoprivo che ero autentica con i miei animali in mezzo alla natura. Si risvegliava la mia creatività, avevo intuizioni meravigliose, diventavo sempre più curiosa di questo nuovo atteggiamento verso la vita. Iniziavo a chiedermi: Chi sono io?
Mi capitava ad esempio di essere nel parcheggio di un grande magazzino e di pensare: “Domani ho una seduta di chemio e non voglio andarci, non voglio…” Poi all’improvviso dal finestrino aperto mi arrivavano alcune frasi pronunciate da due persone che stavano parlando tra loro e sentivo: “Ma no, non prendertela per domani, vedrai che andrà tutto bene!” Era un messaggio per me! Ma chi ci ha insegnato ad ascoltare? Nel bosco mi sono arrivati infiniti messaggi e sincronicità impressionanti. Ricordo che facevo delle domande, magari piangendo, seduta ai piedi di un albero e di colpo una foglia si muoveva davanti a me nonostante non ci fosse un filo di vento. Per me erano risposte che mi facevano bene all`anima. Da notare che, nonostante abbia subito una delle chemioterapie più forti che esistano, non ho avuto praticamente effetti collaterali. Mi avevano detto che avrei perso oltre ai capelli anche i denti, le unghie, ma non è successo niente del genere. Ho perso solo un po’ di capelli che ormai mi ero rasata seguendo il consiglio dell`oncologa.

Come lo spieghi?
Il cervello non distingue la realtà dall’immaginazione, quindi il fatto di immaginarsi in una situazione futura in cui tutto va bene aiuta molto. Nel bosco ho avuto tantissime intuizioni e ho anche incontrato delle persone con le quali ho parlato e che non ho mai più riveduto. Per me erano angeli.

Un altro fatto curioso è che tu abbia trovato i suoi maestri navigando “a caso” in internet.
Dal momento in cui decidi di cambiare, l’universo ti manda tutto ciò di cui hai bisogno. È proprio come il detto “chiedi e ti sarà dato”. Qualcuno di molto grande ha detto: “Sia fatta la tua volontà, non la mia”. Però prima di tutto bisogna decidere di affidarsi e assumersi la responsabilità delle proprie scelte.

Hai anche praticato la filosofia hawaiana dell’O-Ponopono. In che modo ti è stata d’aiuto?
Si tratta di una filosofia basata sul perdono di se stessi e degli altri.  Ne avevo molto bisogno perché ero piena di rabbia. A volte chiedo a chi viene da me se non gli capita mai di fare una cosa controvoglia perché si sentono costretti a farlo. Noi tutti conosciamo questo senso del “mi tocca”. Ma la verità è che nessuno ci obbliga mai a fare niente. Anzi, quando troviamo il coraggio di dire di no, spesso scopriamo di fare un piacere anche agli altri che magari, esattamente come noi, sentivano quell’impegno come un obbligo. Ormai ho scelto di non fare più niente controvoglia, di essere sempre autentica, senza giudizio e senza lamentele. Dobbiamo ritrovare la gioia, la spontaneità che avevamo da piccoli e che da qualche parte ci hanno tolto. Anzi, più giusto sarebbe dire che abbiamo permesso che ce le togliessero, perché non è mai colpa degli altri.

Quale è stato il principale ostacolo sulla tua via di guarigione?
Il più difficile è stato non perdere la centratura di fronte ai giudizi e ai pronostici negativi dei cosiddetti esperti, dei medici che mi curavano e anche di quelli che facevano parte della mia famiglia. D’altro canto è ovvio che parlassero così perché quella è la loro formazione. Sarebbe bello che i medici al posto di fare statistiche inutili chiedessero: Come sta? Come vive la sua vita? E` felice? Che cosa vorrebbe cambiare della sua vita se avesse una bacchetta magica?

Quali sono state invece le tue guide positive, quelle trovate prima in internet e poi nella realtà?
Ho seguito soprattutto Roy Martina, un medico olandese di origine caraibica, che mi ha affascinato con il suo calore e la sua umanità, poi l’americano Joe Dispenza. Dopo la guarigione, ho cominciato a interessarmi alle teorie di Bruce Lipton sulla genetica, di Greg Braden sulla fisica quantistica, e di altri. Ma nel pieno del processo della guarigione il sapere intellettuale non serve, serve il sentire, l`intuire.

Alessandra Olgiati, Quel giorno che ho danzato nel bosco – La malattia che mi ha guarita. Fontana Edizioni Lugano

 

 

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