La chiave del destino umano
In tutti i popoli vi sono leggende di esseri solo parzialmente umani, eroi, giganti o semidei. Infine in tutti questi racconti è presente il conflitto, ossia la necessità di una guerra perché il vecchio faccia posto al nuovo. È forse la chiave di un’eredità che ci condanna a ripetere senza sosta lo stesso schema o abbiamo la possibilità di creare un “nuovo cielo e una nuova terra” senza dover versare il sangue?
Tutti i popoli conoscono miti detti di cosmogenesi, ossia racconti che descrivono il modo in cui il mondo venne creato. In questi miti compaiono immancabilmente figure divine che creano degli esseri superumani (eroi). Parallela, concomitante o soggiacente a tali racconti esiste l’idea di una dimensione infinita, eterna, atemporale da cui nasce il mondo degli dei.
Questa dimensione viene definita Caos Primordiale. Secondo il mito inoltre il tempo è ciclico, ossia esiste un “eterno ritorno”, o eterno ripetersi dei tempi e dei comportamenti degli uomini.
Chi studia il mito si trova quindi confrontato con un duplice problema: da un lato vi è una vicenda, raccontata in modo fiabesco e attraverso immagini complesse, il che implica l’esistenza di una storia mitica ossia di una storia parallela, diversa da quella ufficiale e molto difficile da accettare per la mente moderna. Non a caso la parola “mito” ha assunto nel linguaggio comune il senso di “favola”, o di “fantasia”. Ciò nonostante alcuni studiosi moderni hanno proposto di rileggere i miti prendendo in considerazione il loro carattere di “verità”.
Il secondo problema consiste nel concetto di “infinito” presente nel mito e che non corrisponde a nulla che sia accettato scientificamente, proprio perché l’infinito inizia dove finisce l’universo osservabile. Stando così le cose, con quale ottica dobbiamo studiare il mito? Dobbiamo analizzarlo secondo i dettami della fisica quantistica? Della teologia? Della filosofia? Della psicologia? Dell’esobiologia(l’esobiologia è un campo speculativo della biologia che considera la possibilità della vita extraterrestre e la sua possibile natura)?
La soluzione più comune consiste nell’interpretare i simboli contenuti nella narrazione, il che permette di arrivare ad alcune “certezze”, persino in un campo che è di per sé misterioso.
Credo che la necessità di costruirsi delle “certezze” sia propria dell’essere umano. Le certezze sono una specie di “Scala di Giacobbe” che garantisce una forma di sicurezza sia a livello psichico che organico. Sembra persino che, se tale sicurezza venisse a mancare, perderemmo la forza di andare avanti nella nostra storia collettiva e individuale.
Non a caso l’uomo è il solo animale che teme la notte. Nella sua affannosa ricerca di chiarezza, l’essere umano si sforza senza tregua di illuminare le tenebre, senza mai tentare al contrario di “sentire” ciò che quelle stesse tenebre potrebbero insegnargli. Se avessimo comprenso fino in fondo il Mito della Caverna di Platone, non avremmo tanta paura del buio. Ma, poiché le tenebre sono assenza di luce, abbiamo bisogno di una luce estranea per costruire la nostra, dato che, oltre a non capire la notte, siamo incapaci di creare il nostro proprio Fiat Lux.
Così, seguendo la tradizione secolare dei figli della notte, questo mio lavoro esamina il mito partendo da posizioni filosofiche, così da far percepire attraverso queste ultime l’idea dell’infinito. È mio proposito proporre piccole idee/interpretazioni simboliche trasversali che possono essere desunte dai racconti mitici.
Nella narrativa mitica vi è una costant: l’idea che da un Grande Caos abissale di cui non si sa né nome né l’origine, emani una forza imponderabile che porta con sé la luce e la vita sede dell’immortalità:
“E nacque dunque il Càos primissimo;
e dopo, la Terra dall’ampio seno,
sede perenne, sicura di tutti gli Dei
ch’ànno in possesso le cime nevose d’Olimpo,”
(Esiodo, Teogonìa, versi 116 a 118)
In questa “apparizione”, così difficile da immaginare poiché sembra estranea a tutto ciò che esiste sulla faccia della terra, vi è qualcosa di trasparente, qualcosa che possiamo guardare senza timore.
Strano fatto questo, di trarre dalla Divina Oscurità una luce nascosta agente della trasformazione del Verbo in comunione materiale, nell’elaborazione del sangue donatore di vita.
Secondo l’interpretazione comunemente accettata questa immagine del caos, dell’oscurità e della nebbia viene vista come la descrizione di uno stato anteriore, ossia primitivo, privo di ordine e quindi destinato ad addensarsi progressivamente, ad evolversi poco a poco.
Secondo alcuni studiosi tra cui il portoghese Antonio Telmo, esiste tuttavia un’altra interpretazione che non fa soggiacere il mito all’analisi storica e che concepisce il passato, la bruma come un caos brillante. Il caos, inteso come generatrice dell’origine dell’universo si fonde con la luce, nel senso di un futuro-del-passato, nel mezzo del quale si trova il presente, il generato.
In questo modo la generatrice, il generato, il generatore formano una triade trasparente che fa nascere altre domande sulla forza nascosta, sul Graal, sul Paradiso Perduto, su Dio e sull’origine dell’homo sapiens.
La nebbia nasconde il sole proprio come il visibile nasconde l’invisibile, come la materia nasconde lo spirito.
Il contrario del nascondere consiste nello scoprire e in questo senso il mito è il mezzo che ci permette di comprendere il caos.
Se gli dei precedono e preparano l’occultazione delle Origini, ciò significa che possiamo viaggiare a ritroso, togliendo un velo dopo l’altro, tracciando il nostro personale “cammino” di Santiago.
L’uomo nasce con un anelito verso l’Alto. Persino il meno “civilizzato” tra gli esseri umani, sceglie istintivamente alcune cose, animate o no, che considererà sacre e tratterà con rispetto. In quanto alla nostra tradizione, quella giudaico-cristiana, da un lato e quella greca dall’altro, ci hanno lasciato entrambe tracce scritte e verbali che descrivono le loro rispettive percezioni di questo anelito al sacro.
Nel primo caso, dopo una serie di guerre, il popolo d’Israele raggiunge l’unità e diventa monoteista, abbandonando le antiche tradizioni matriarcali di Baal. Il greci dal canto loro ereditarono le loro radici pagane dalle tradizioni minoiche e indo-europee. Tuttavia, sia il monoteismo sia il paganesimo riconoscono entrambi una forma di Realtà Suprema quale fondamento della materia e della vita. In altre parole esiste una radice unica che potremmo chiamare l’Alto.
L’Occidente pertanto porta dentro di sé questi due rami dello stesso albero che, in continuo dialogo tra loro, formeranno il carattere e la fisionomia occidentali. Il ramo pagano ha creato la civiltà greco-romana, il culto della Forma, della bellezza concepita all’interno della Realtà della Natura. Il ramo monoteista ha creato la civiltà giudaica, il culto dello Spirito, l’unità divina, la bellezza incorporea e astratta, concepita come immateriale.
Diremmo che il primo ramo ha portato il Naturalismo, mentre il secondo lo Spiritualismo.
Entrambe le tradizioni tuttavia, per descrivere il modo in cui il mondo e gli esseri furono creati ricorrono all’immagine di un Albero. Questo Albero rappresenta il mondo superiore, la creazione; mentre le creature rappresentano il mondo inferiore.
Ora vediamo come i greci e gli ebrei descrivono rispettivamente questo Albero. Nella tradizione cabalistica, Ain (una specie di assoluto primordiale paragonabile al caos dei greci), emana Ain Soph Aur da cui emana la prima delle dieci Sephiroth: Kheter e così di seguito fino alla decima Sephira, Malkut o Regno, dalla quale tutto risale verso l’origine. Secondo i cabalisti il mondo venne creato attraverso 32 vie che includono le 22 lettere dell’alfabeto ebraico e le dieci Sephirot, o Dimore che sono gli attribuiti del Nome Divino. Tra le Sephiroth esistono 22 collegamenti che corrispondono alle 22 lettere dell’alfabeto. Ai testi di letteratura cabalistica si aggiunge una serie di immagini simboliche di difficile interpretazione.
Possiamo tracciare un’analogia tra l’Albero della Vita ebraico e il mondo Olimpico narrato da Esiodo nella Teogonia. Non vogliamo certo sostenere che la Teogonia nasconde contenuti cabalistici, ossia possibili applicazioni simili a quelle proposte dall’Albero della Vita. Vogliamo soltanto sottolineare il fatto che anche l’epopea greca ci propone un’immagine simile a quella di un albero, dove gli dei assumono il ruolo di poteri che nutrono, sostengono e muovono la creazione.
Il raconto presenta una struttura nella quale possiamo identificare chiaramente una radice, una matrice, un tronco e dei rami principali e secondari, nonché fronde e frutti. Tutte queste parti sono unite da una linfa eterna, “il sangue degli dei” che nasce dall’abisso (Caos) per dirigersi verso l’Alto (Gea e i suoi fratelli Olimpici), per poi tornare verso il basso (la creazione e il mondo degli uomini).
Lo storico Jean-Pierre Vernant, famoso per le sue ricerche sul passaggio dal pensiero mitico al pensiero razionale nella civiltà greca, parla di un quadruplo sistema di codificazione sociale – un codice botanico, zoologico, alimentare e astronomico – complesso e differenziato, caratteristico di una determinata cultura.
“Considerato nella sua totalità” scrive Vernant “un sistema del genere appare carico di un significato fondamentalmente sociale: esso esprime infatti il modo nel quale un gruppo umano in determinate condizioni storiche, vede se stesso, definisce la propria esistenza e si situa in relazione alla natura e al soprannaturale”.
Secondo queste premesse, come dovremmo leggere il mito narrato nella Teogonia? Forse che questo mito vuole dirci qualcosa? E in questo caso, che senso dovremmo dare al suo messaggio? Esiodo stesso, nel trascrivere la tradizione orale del suo tempo, era cosciente del fatto che non ci lasciava solo un ricordo della sua cultura ma che ci impartiva inoltre una lezione di esobiologia? Non abbiamo risposte a queste domande e forse non le avremo mai.
Abbiamo perduto la capacità di creare simboli. Se potessimo vedere oltre le apparenze, potremmo intravedere simmetrie e analogie e stabilire un ordine nel caos, forse potremmo leggere in modo intelligente e saggio ciò che ci hanno lasciato le generazioni precedenti.
Esiodo che con la Teogonia ci ha lasciato una storia dell’origine del mondo e una genealogia degli dei immortali trapiantata negli uomini mortali, non sta tracciando, forse senza saperlo, l’immagine di un Albero della Vita? Forse l’immortalità e l’atemporalità sono state trapiantate nell’ «altra dimensione», mentre la vita materiale da questa parte, resta un luogo di immortalità, legato alle Origini da analogie e somiglianze, nonostante gli abissi cosmici, ma limitato dal nuovo tempo di quaggiù, lineare e interrotto. Forse i geni degli dei dell’Olimpo si nascondono nel DNA mortale, formando insieme ad esso una super-umanità di eroi e semi-dei. Forse i greci, attraverso rituali ciclici, adattavano il loro spazio-tempo allo spazio-tempo delle origini e, con i racconti mitici di unioni sessuali tra dei e umani, univano indissolubilmente il loro mondo ai cieli e alle stelle. Gli dei interferiscono continuamente nella vita umana, tracciando codici di comportamento che gli uomini adottano senza nemmeno pensarci.
Non vediamo forse in tutte queste cose una manifestazione dell’alto e del basso, della moltiplicazione senza divisione della materia del mondo. Non vediamo forse un unico corpo senza materia, o dotato di una materia “nera” tanto immensa da diventare invisibile agli occhi umani? Che cosa sono i figli degli dei, generati con altri dei o con mortali, se non rami che crescono dall’Alto verso l’Abisso antecedente la creazione? L’Albero di Esiodo ha molti rami ma un solo tronco. Prometeo, Dioniso ed Efesto non sono forse degli dei-uccelli, precipitati nel mondo degli uomini? Gli dei non hanno forse la vertigine delle altezze e forse per questo alcuni di essi, come gli angeli, hanno pagato un prezzo molto alto per il loro amore. Coloro che non vogliono farci volare come uccelli, quantomeno tentato di insegnarci a non temere le altezze. Gli dei che non ci vogliono aquile, signore delle vette, ci insegnano quantomeno a essere galli, volatili amici della luce ed esploratori della notte.
L’arboricoltura prevede che gli alberi vengano potati subito dopo la primavera con lo scopo evidente di eliminare i rami vecchi che avranno maggiori difficoltà a fiorire.
Curiosamente il Paradiso biblico è un Giardino abitato da varie specie di piante e di animali. Anche gli dei dell’Olimpo hanno un loro Paradiso particolare dal quale traggono le loro delizie. L’uomo vive solitario nel primo, ma non è ammesso nel secondo. La tradizione crisitiana presenta Dio come un vasaio divino che modella la creta. Ma è anche un giardiniere celeste, visto che il Paradiso Primordiale esiste prima della creazione dell’uomo. Gli dei greci sono contrari a qualsiasi forma di lavoro. Le eccezioni sono Prometeo, Efesto e i Ciclopi, tutti abili lavoratori dei metalli. Ma gli dei non sono nemici del lavoro, le loro storie sono profondamente legate alla vegetazione, alle forze della natura, al contatto con gli animali, al vigore della gioventù, alle acque, ai venti, ai fiumi. Essi sono quindi dei “giardinieri” che, se non coltivano il loro giardino, quantomeno ci abitano.
Il racconto di Esiodo presenta anch’esso l’architettura di un albero e Gaia stessa diventa a modo suo la giardiniera che lo coltiva e ne “pota” i rami quando infonde in Crono l’idea di castrare il proprio padre.
«Figli che a un padre senza pietà generai, se volete
udirmi, or vendicare potremo gli affronti del padre vostro,
che ai vostri danni rivolse per primo il pensiero»
(Teogonia, versi 164-166).
Questa interferenza di Gaia rispetto all’andamento spontaneo delle cose ricorre in vari punti della Teogonia. Il risultato di ciò è un’ostilità di sangue e l’apparizione di generazioni trasgressive. Scoppia una guerra tra i regni dove le credenze del nuovo mondo (Zeus) lottano con quelle del mondo antico (Urano). Un’interferenza così sistematica e continua denota un’abile pianificazione e il mantenimento di un potere rispettabile e influente quanto basta per cambiare il corso degli eventi. Pertanto non possiamo evitare di essere incuriositi dal silenzioso personaggio di Gaia. La Dea Madre mantiene il proprio potere anche dopo la castrazione del proprio figlio-sposo Urano.
Quali lezioni possiamo trarre dagli eventi degli inizi dei tempi? Se consideriamo vera l’idea che il Cielo feconda la Terra e che gli uomini ripetono il modello paradigmatico degli dei riguardo all’ostilità di sangue, vediamo che esistono leggi ataviche che perpetuano gli antagonismi e i conflitti sul piano della storia socio-culturale umana. Il nuovo non sembra poter esistere pacificamente accanto al vecchio. Ogni cosa pare retta dalla legge della dualità. Insomma, il cambiamento e la creatività compaiono solo raramente nella società umana e la maggior parte degli uomini ha un comportamento ripetitivo, come fosse inserito in una natura avvolgente e ritmica, retta da leggi immutabili. Come possiamo accettare l’eredità degli dei olimpici senza soccombere alla fatalità della castrazione-potatura del vecchio affinché il nuovo possa vivere?
Se guardiamo le profezie, appare innegabile la prospettiva di un Nuovo Cielo e di una Nuova Terra che dovrebbero arrivare quando il Vecchio Cielo e la Vecchia Terra avranno fatto il loro tempo. Forse in questa nuova realtà vecchio e nuovo potranno coesistere pacificamente, in modo del tutto inusitato per la nostra mentalità attuale. Il nostro passato è scritto. Possediamo racconti incerti e frammentari delle nostre origini. Finora tuttavia nessun poeta, nessun profeta o avatar si è ancora azzardato a scrivere come e quando spunterà il nuovo giorno. Forse le Parche vogliono che assumiamo il qui in basso e diamo continuità alla grande opera degli Dei.
Loryel