Quella imperiosa voce interiore
Noi tutti abbiamo dentro di noi un giudice che valuta il nostro comportamento e le nostre emozioni, lodandoli o condannandoli secondo i casi. Questo giudice ci serve perché pone dei limiti e fornisce un senso di identità. A volte però può trasformarsi in dittatore e crearci seri problemi. Ne parliamo con Massimiliano Moschella, operatore olistico che tiene sedute individuali e di gruppo per lavorare sul giudice interiore.
Il giudice interiore – ci dice – viene chiamato anche “super-io”, “cane che abbaia”, o “dittatore interiore”. Nonostante questi nomi non è una figura da eliminare. Infatti grazie a lui siamo ancora in vita e abbiamo raggiunto certi obbiettivi, come studiare, o comprare una casa. È il giudice che ci dice di attraversare sulle strisce, di non fare una certa cosa perché è pericolosa, di trovare un lavoro e così via. Il giudice quindi ci fornisce una certa struttura e pertanto il suo ruolo è sostanzialmente costruttivo come guida della nostra vita. Tuttavia in certi casi può diventare un problema poiché filtra le nostre esperienze in base alle ferite dell’infanzia e soltanto in base alle esperienze del passato. Faccio un esempio: un uomo con cui sto lavorando ha un senso di identità legato all’immagine di una persona forte. Oggi però questa immagine di forza lo mette in difficoltà perché soffre di attacchi di panico che lo hanno portato a uno stato di grande vulnerabilità, il che che non è concesso dal suo codice di identità.
Perché il suo giudice si è “programmato” su questa immagine di forza?
Il fatto che sia arrivato a identificarsi in questo ruolo di persona forte è dovuto alla sensazione avuta da bambino che sarebbe stato accettato solo se fosse stato così. I bambini quando nascono hanno una tavolozza di emozioni completa: hanno la forza, l’aggressività, lo slancio a esplorare. Poi, durante la loro esperienza all’interno dell’ambiente familiare, si struttura il senso di ciò che è bene e di ciò che non è bene. Il giudice interiore è quello che loda o condanna. Nel caso che ci interessa, il bambino a circa due anni ha percepito che certe emozioni potevano essere accettate, ossia comprese dai genitori, mentre altre invece venivano rifiutate, direttamente o indirettamente. Quindi il bambino, che non voleva perdere l’amore dei genitori che per lui significava nutrimento e vita, ha cominciato a sopprimere le emozioni “cattive”, finché queste sono state rimosse e sono finite nell’inconscio. Così, ogni volta che nella vita un avvenimento portava verso quelle emozioni, qualche cosa si manifestava nel suo corpo, ad esempio uno stato di ansietà, uno stato di irrequietezza. Questo perché l’emozione in questione lo avrebbe riportato al dolore di dover rinunciare a una parte di sé.
Lei ha parlato di ansietà e di inquietudine. In quali altri modi si esprime il giudice quando diventa un problema?
Il giudice si può esprimere direttamente in modo inconscio attraverso il chiacchiericcio mentale, oppure tramite una sensazione all’interno del corpo, come una contrazione nella zona del collo, o del plesso solare, della pelvi, o nelle gambe. Ciascuno ha la sua mappa di sensazioni corporee legate all’attacco del giudice interiore. Quindi, il lavoro sul giudice richiede una grande attenzione al corpo in modo che la persona possa entrare in contatto con questo personaggio interiore (forse meglio chiamarlo stato dell’io) e si renda conto che non vive in uno stato di libertà, ma in un continuo suggerire, premiare, punire, che sono le caratteristiche del giudice.
Un’altra manifestazione del giudice è il cosiddetto “loop”, o dialogo interiore, dove c’è una parte che attacca (il giudice) e una parte che si difende (il bambino). Ad esempio il giudice dice: “Mi avevi detto che ti mettevi a dieta a partire da lunedì!” e il bambino risponde: “Ma ieri ho mangiato poco!” e il giudice: “Vedrai che non ce la farai!” e così via.
In questo dialogo l’identità della persona passa alternativamente dal giudice al bambino e viceversa. Tutto ciò è faticosissimo e possiamo arrivare a fine giornata completamene sfiniti senza aver fatto nulla di particolare. A volte il giudice si manifesta anche come senso di colpa, o come reattività (sotto forma di rabbia), o come proiezione esterna.
In questi casi il modo di entrare un contatto con il giudice consiste nell’osservare quando qualcosa ci tocca. Potrebbe essere, per esempio, un giudizio esterno. Prendiamo il caso di un operatore come me: se qualcuno critica il mio modo di lavorare e di condurre il gruppo, potrò reagire in modi diversi. Se sono sicuro del mio modo di comunicare e di lavorare, reagirò in modo pacato. Se invece il mio giudice interiore mi fa dubitare consciamente o inconsciamente del mio modo di operare, allora una critica esterna mi raggelerà, oppure mi farà reagire in modo aggressivo, o ancora mi farà fuggire, perché questi sono i tre modi primordiali di reagire al pericolo: paralisi, attacco, fuga.
A che età si forma il giudice interiore?
Solitamente comincia a formarsi molto presto ed è completamente formato verso i sette anni.
Mi sembra evidente che il giudice non va eliminato, nemmeno nei casi in cui crea qualche problema. Che cosa bisogna fare allora?
Bisogna conoscere meglio il giudice. Nel mio lavoro di operatore olistico, aiuto le persone a contattare il proprio giudice, a riconoscerlo.
Quali strumenti usa?
Insegno principalmente la meditazione come uno degli strumenti che serve a rafforzare lo stato di presenza. Perché per capire che cosa è il giudice, devo prima di tutto sentire questo chiacchiericcio interiore. Per poterlo fare devo praticare vari tipi di meditazione, per staccarmi dalla mente e portare l’attenzione a quello che avviene nel mio corpo. Una delle caratteristiche della meditazione è il rallentare. Nella società in cui viviamo tutto è velocissimo. Basta vedere la moltitudine di messaggi che arrivano in pochi minuti sul nostro telefono e che ci costringono a passare da whatsapp a facebook alla posta elettronica e via dicendo. Un altro punto è quello di osservare che quando i pensieri passano molto veloci a volte non riusciamo a prenderne coscienza. Il fatto di rallentare, di soffermarci a guardare un pensiero ci permette di capire quello che quel particolare pensiero ci vuole comunicare.
Uso anche altri esercizi, includendo la respirazione, o la comunicazione, ma è fondamentale la presenza e l’imparare a stare nel corpo, cosa che noi ci dimentichiamo di fare perché siamo troppo presi dal bisogno di capire e di razionalizzare.
Oggi conosciamo molti tipi di meditazione. Quali sono quelli che insegna?
Considero le meditazioni come strumenti e pertanto le adatto alle persone con cui lavoro. Infatti, secondo le loro abitudini e le attività che svolgono, la meditazione potrà essere dinamica o statica, in modo da rendere completo il lavoro e da fornire il maggior numero di strumenti possibile. Uso per esempio la meditazione dinamica di Osho, o la danza Tandava di Daniel Odier. Il mio scopo e quello dei miei colleghi non è di dare soluzioni, ma di fornire degli strumenti.
Queste tecniche devono diventare per le persone delle abitudini, dei modi di vivere?
Per me la meditazione è uno stato dell’essere che tutti noi conosciamo e che molti di noi provano spontaneamente in certe circostanze: per esempio andando a pesca, oppure facendo una passeggiata nel bosco e così via. È uno stato in cui il pensiero si fa più lento, c’è uno stato di presenza calmo, un sentire il corpo. È quindi una pratica che diventa un modo naturale dell’essere, meno egoico e più animico.