Dalla tragedia al mito

Dalla tragedia al mito

“Ossimoro sorridente”,  sotto questo il titolo enigmatico Francesca Fretti narra una vicenda la cui trama fantastica lascia indovinare un dramma reale, nato dall’incontro-scontro fra due culture, quella svizzera e quella siciliana, entrambe presenti nella famiglia della scrittrice. La scelta di una trasposizione simbolica si è imposta quasi spontaneamente all’autrice, convinta che  il simbolo e i riferimenti al mito hanno un impatto più profondo e universale del semplice racconto autobiografico.

Leggendo il tuo romanzo, si intuisce che alla radice della vicenda vi è un doloroso segreto familiare. Per quale motivo hai rinunciato a narrarlo con poche varianti, come fanno molti autori che inseriscono elementi autobiografici nei loro romanzi, e hai optato per una rielaborazione fantastica che a tratti tocca addirittura il mito?
Anche questa storia, come ogni storia probabilmente, nasce da uno spunto autobiografico, ma nel mio caso non tanto dagli eventi ma piuttosto da una sensazione, un’atmosfera in cui sono cresciuta e che poi si è consolidata in una serie di drammi familiari. Lungi da me voler raccontare fedelmente quanto accaduto, piuttosto la necessità interna profonda era quella di dare senso, un mio senso, alle tragedie di una famiglia, che dal mio punto di vista, prendevano il via dal momento in cui due culture molto diverse si erano incontrate.
Il bisogno di dare un significato a tutta la vicenda mi ha portata a scendere a quei livelli sotterranei e interiori dove gli eventi perdono il loro carattere personale per diventare mito. Si sa che il mito è un modo di elaborare i misteri del mondo e della natura umana e allora ho voluto narrare in modo diverso quel segreto familiare, per dare un senso a ciò che per me non aveva senso, per passare dal ruolo di vittima a quello di artefice.

Hai pensato quindi che in questo modo la tua narrazione tocca un livello dove tutti si possono riconoscere?
Sì, ho sentito che attraverso questa rielaborazione potevo rendere il racconto recepibile a molte più persone, proprio perché sfuggivo ai limiti posti dalla narrazione realistica stretta.
Credo che scendendo nelle terre del mito e degli archetipi che abitano i nostri strati profondi si possa accedere a una trasformazione, una guarigione, che da personale diventi collettiva e possa parlare all’animo di chi legge.
È stato il risutato di un processo quasi involontario, istintivo.

Quanto tempo hai impiegato a scrivere questo romanzo?
Ci sono voluti circa quindici anni per portare a termine il racconto, quindici anni e quattro figli, mentre lavoravo su me stessa e sul mio sistema familiare, una parte di me (quello che chiamo il mio Abitante Scrivente) sviluppava la storia e la trasformava in mito.
Naturalmente non ho lavorato in modo continuato, ma ho sempre ripreso regolarmente la narrazione, il congegno narrativo si è creato da sé e si è sviluppato nel tempo.
In tutti questi anni avrei potuto abbandonare il progetto e scrivere altro, ma non è stato possibile: sentivo che dovevo terminare questo racconto prima di essere libera di dedicarmi ad altri lavori di scrittura. Questa storia mi ha posseduta. È stato un processo di crescita mio personale che è andato di pari passo con altri tipi di ricerca, ad esempio il metodo delle Costellazioni familiari, o le Leggi biologiche del dottor Hamer.

Questo lavoro è stato anche un modo per liberare i tuoi figli?
Quando cominciai a lavorare con le costellazioni sistemiche familiari mi resi conto di come gli eventi vissuti da una generazione si riflettevano sulle generazioni seguenti, di come ci fossero tematiche che venivano tramandate e di come questo processo fosse invertibile e le soluzioni trovate da una generazione andassero a portare guarigione anche a quelle precedenti e a tutti coloro che vi erano connessi.
Sono partita pensando agli avi, ma quando mi sono resa conto del lavoro che stavo facendo, ho pensato che sarebbe servito anche ad affrancare i miei figli. Mi sono detta che avrebbero avuto i loro problemi, magari anche causati da me, ma almeno sarebbero stati liberi da quella maledizione.
Ho voluto includere quelli, che secondo le Costellazioni familiari, sono “gli esclusi”, coloro di cui non si parla per un motivo o per l’altro e che venendo dimenticati lasciano dei vuoti che causano squilibri nel sistema familiare di cui fanno parte.

La Sicilia è parte integrante di questo dramma familiare. Quale è stato il tuo contatto con quella terra, la terra di tuo nonno?
Il ruolo della Sicilia in tutta la vicenda è fondamentale ed entrando a contatto con la Svizzera ha creato quella specie di reazione chimica che ha nutrito la tragedia. Il mio romanzo si svolge tra due isole immaginarie ma non troppo, la Sciculla e la Sguizza, ispirate ai due luoghi a cui sono radicata e al rapporto di contrasti che le collega.
La Sicilia l’ho sperimentata inizialmente attraverso mio nonno. Penso alla sua presenza in casa, a come non ci fosse niente che ricordasse la Sicilia dove abitavamo, ma a quanto lui fosse diverso e come da lui emanasse tutta quella Sicilianità senza che facesse niente. Eppure dentro era alla ricerca di un luogo come la Svizzera, pulito e civile. Vedo in me l’opposto, quando in Sicilia gli amici mi chiamavano la Svizzera, mentre dentro cercavo calore e tumulto.
Prima di vederla di persona, la Sicilia l’ho amata nelle poesie di mio nonno che ne cantava la natura potente e ne criticava la situazione sociale, e quando poi l’ho conosciuta di persona l’ho ritrovata come le sue parole me l’avevano trasmessa: un luogo meraviglioso dove le relazioni umane rasentano la follia quotidianamente.
La Sicilia è la mia terra, mi emoziono ogni volta che ci atterro, ma può essere anche molto impegnativa e pesante.

Ma anche il tuo sguardo sul Ticino è critico…
Certo, anche il Ticino o la Svizzera in generale, in un modo totalmente diverso dalla Sicilia, si è dimostrato un luogo difficile per me, con la sua rigidità, la sua freddezza. È il luogo in cui sono nata, ma anche quello dove ho vissuto tutti i traumi familiari sintomi di quella che chiamo maledizione. Per quanto io ami la natura della Svizzera, per me rimane la culla del dolore, un luogo in cui mi sento straniera perché vi ho attraversato troppe tempeste solitarie, trovando difficilmente spazio di accoglienza perché qui anche il dolore va moderato per essere condivisibile.
Ma anche la Svizzera è la mia terra.

I personaggi del tuo romanzo sono tutti trasposizioni di persone autentiche o impersonano a volte sentimenti, o stati d’animo?
Penso che si possa fare una lettura a più livelli anche dei personaggi.
Per la maggior parte sono ispirati da persone reali, che mi hanno dato lo spunto per creare il personaggio, anche se spesso non avevano niente in comune con il ruolo che ho affidato loro nel romanzo. Altri li ho inventati di sana pianta per far funzionare il congegno narrativo.
Alcuni personaggi sono sia persone che figure simboliche, potrebbero essere degli Arcani Maggiori dei Tarocchi… la Cantatrice, il Filosofo, lo Scriba, la Voce…
Il personaggio che incarna invece una sensazione è Tano Lamorte, il compagno oscuro che affianca quotidianamente tutte le donne della famiglia e che con la sua sola presenza emana dolore. Più che averlo creato io, Tano si è manifestato spontaneamente nel suo personaggio.

Visto che si tratta di una storia al femminile, il rapporto delle donne con Tano ha una grande importanza?
Sì, tutto gira intorno a queste quattro generazioni di donne:
L’oscurità le avvolge e le accompagna… loro ricevono e accolgono, l’oscurità le condiziona secondo la loro personalità, come andando a risvegliare il buio già presente nella loro essenza femminile, yin, quell’oscurità costitutiva che si contrappone al principio yang luminoso, si contrappone eppure ne è il presupposto.
Come nel Faust di Goethe Mefisofele dice “Io sono quella forza che sempre vuole il male e sempre genera il bene”, è l’incontro con Tano che porta i personaggi femminili di questo racconto a realizzare il loro destino, il loro “bene” che non è equivalente a ciò che moralmente o normalmente identifichiamo come tale, ma lo è in quanto permette a queste donne di compiersi.
Non possiamo fuggire dal buio che abbiamo dentro.
A un certo livello sono le donne della mia famiglia, ma possono essere anche le molte vite che si susseguono nell’esistenza di una singola donna, le diverse fasi che ci compongono. E sapendo che tutti gli ovuli che matureranno nella vita di una donna, si producono quando questa è nell’utero di sua madre, la compresenza biologica matrilineare già le rende Una.
Sono madri e figlie, anelli di una catena che intreccia morte e vita. Le gravidanze segnano il ritmo della maledizione che muta con loro nel passaggio che le trasforma da figlie a madri

Per quanto concerne la storia, a che cosa ti sei ispirata?
La struttura del libro non è stata pensata a tavolino, è sorta dal racconto, dalla mia necessità di costruire la storia intorno a dei punti fondamentali che volevo narrare, poi si è intrecciato tutto il resto.
Certi eventi hanno origine da una semplice frase che ho udito di ragazzina, o da qualcosa che mi è stato raccontato. C’è un continuo rimando alla mia biografia, ma sempre rielaborato, trasformato. Ho mantenuto l’emozione, ma non sono stata aderente ai fatti.

Infatti la frase “diffida della realtà” appare fin dagli inizi del romanzo in un misterioso libro che i personaggi si passano e che è stato scritto da un altrettanzo misterioso filosofo…
Bön Hamelin è il personaggio che porta la mia visione filosofica nel romanzo. Una filosofia che spesso consiste nel chiedermi: “ma è quanto è reale la realtà?” Tengo presente lo scenario del filosofo Putnam del cervello in una vasca, che viene stimolato elettricamente e che crede di vivere. Non ho certezze e sono stupita quando vedo che altri sembrano non dubitare di niente.
Nel libro Bön è uno che la sa lunga, ha studiato e osservato le leggi dell’universo e ha tirato le sue conclusioni, ha fatto le sue verifiche… tanto da rendersi conto che qualcosa non quadra. È un filoso mistico quanto pragmatico che non teme di porsi in contrasto con l’apparente realtà delle cose, con la narrativa ufficiale di come funziona il mondo. È un ribelle che vive secondo le sue scoperte con tanta presenza che questo modifica la realtà relativa e permette che la verità accada.
In lui ci sono tanti riferimenti che hanno condizionato la struttura del mio pensiero Schopenhauer, Jung, Krishnamurti, Hamer, Hellinger… ma anche un forte influsso di personaggi letterari, Talete e Cornelius Noon, creati da Stefano Benni in Elianto, uno dei miei libri preferiti

Tuo nonno, Franco Enna Cannarozzo, è stato scrittore di gialli oltre che poeta. Che ruolo ha avuto nella tua formazione?
Ho passato gran parte della mia infanzia a casa dei nonni materni, ero la prima nipote, unica bambina in un mondo di adulti. Su tutti spiccava quel nonno carismatico, straniero, scrittore, di grande cultura. Sono cresciuta con il ticchettio della macchina da scrivere in sottofondo. Era uno scrittore prolificissimo, circa duecento pubblicazioni sotto vari pseudonimi, tra gialli, romanzi, libri per ragazzi, poesie. Ha scritto per la radio e la televisione della Svizzera italiana e per il cinema.
Vicino a un nonno così, scrivere è sempre stato normale e già alle elementari inventavo racconti.
Una volta scrivevo anche diari, cosa che oggi non faccio più, perché sento il bisogno di trasformare ciò che vivo anziché riportarlo come l’ho vissuto.

Ma non hai pubblicato niente prima di “Ossimoro sorridente”?
No. Sono stata troppo impegnata da una vita complicata, sono stata per tanto tempo alla ricerca di un mio equilibrio. Diventando madre ho trovato una certa stabilità. È a quel punto che ho cominciato a scrivere il romanzo.

E ora che cosa stai scrivendo?
Sto rivedendo dei racconti scritti tempo fa e mi sto occupando di editing per la casa editrice dell’associazione Cosmia di cui sono cofondatrice. Ho imparato recentemente che scrivere è anche far leggere e revisionare, e che, come mi ricorda la editor del mio romanzo, scrivere è un’arte ma anche un mestiere. Da poco iniziato a scrivere un romanzo con uno spunto schopenahueriano, ma ho in testa anche un giallo con un mistero osservato alla luce delle scoperte di Hamer.

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