Piero Scanziani, scrittore di frontiera
Quello della frontiera è un tema che ricorre spesso nella vita e nell’opera dello scrittore ticinese Piero Scanziani (1908-2003). Nato a Chiasso, sul confine tra Svizzera e Italia, scopre prestissimo l’esistenza di frontiere linguistiche e politiche tra i popoli e le Nazioni. È ancora bambino quando la madre si separa dal marito e lo conduce con sé a Losanna e poi a Milano, la grande città dove si sentirà per la prima volta solo e straniero. Più avanti, nel corso di una vita travagliata, segnata da periodi di malattia e di gravi difficoltà economiche, Scanziani sarà attratto anche da un’altra frontiera, quella tra visibile e invisibile, tra mondo materiale e mondo spirituale. Alcune esperienze di comunione estatica con il tutto gli lasceranno una struggente nostalgia per quella dimensione in cui ha percepito un amore incondizionato che ha nell’amore materno il suo unico riflesso terreno. Questa nostalgia lo porterà a compiere un’instancabile ricerca interiore ed esteriore, a viaggiare, a interrogare grandi saggi e filosofi d’Oriente e d’Occidente, riportando esperienze e riflessioni nei suoi scritti.
In questa intervista la vedova di Scanziani, Magi, rievoca questo aspetto della vita e dell’opera dello scrittore.
Piero Scanziani è una figura unica tra gli scrittori della Svizzera italiana se non addirittura tra gli scrittori italiani del suo tempo. Nessuno o quasi nessuno in quegli anni si interessava alla trascendenza. Che cosa ha determinato questo suo interesse?
L’interesse per la trascendenza era nato nell’infanzia e nella prima adolescenza di Piero, nei collegi che frequentava allora. Scanziani era già un lettore accanito e verso i quattordici anni, ispirato da uno scrittore di nome De Marchi, autore de “L’età preziosa”, che a quei tempi andava per la maggiore, scrisse in un quadernetto una specie di programma delle sue future ricerche. Questo programma si riassumeva in tre parole: Anima, Amore, Dio. Tuttavia, a quanto mi disse, le esperienze vissute nei collegi religiosi non furono certo un esempio di spiritualità e ciò lo sconcertò, allontanandolo momentaneamente dalla religione. Fu solo nel 1939, dopo aver letto due libretti di Sri Aurobindo, che paradossalmente ritornò alla sua tradizone d’origine, il cristianesimo.
Come avvenne la scoperta di Aurobindo?
Nel 1939, Piero era a Berna dove dirigeva i servizi dell’Agenzia telegrafica svizzera in lingua italiana. Si trovava in uno stato di grave depressione dovuto alla sua situazione personale e alla situazione del mondo. Stava per scoppiare la seconda guerra mondiale. Il mondo sembrava in preda alla follia. Piero mi confessò che aveva addirittura pensato di gettarsi nell’Aar per farla finita. Proprio in quei giorni, un libraio che conosceva il suo gusto per la lettura gli inviò alcuni libri in visione. Tra questi ve ne erano due di Sri Aurobindo. Il primo era intitolato “Aphorismes et pensées”, il secondo “La Mère”. Questo secondo titolo gli sembrò un’ennesima invocazione della Madonna e non gli piacque troppo. Aprì invece “Aphorismes et pensées” e lesse alcune righe che bastarono a illuminargli la mente e il cuore. In due sue opere, “Il fiume dalla foce alla fonte” ed “Entronauti” descrive questo stato di comunione con il tutto, di estasi che io definisco “Il bacio di Dio” e che pose fine alla depressione, tanto che nel 1941 uscì il suo primo romanzo intitolato “La chiave del mondo”.
Non ha mai avuto, come altri intellettuali del suo tempo, la tentazione di aderire a una religione orientale?
No. In “Entronauti” spiega molto bene i motivi che lo hanno spinto a rimanere profondamente cristiano. A prescindere dal fatto che certe religioni, come l’induismo, non accettano le conversioni, Piero Scanziani ha sempre ritenuto che il battesimo fosse un marchio dell’anima e che il fatto di nascere dentro una determinata religione non fosse un caso. L’incontro con Sri Aurobindo lo ha anzi stimolato a esplorare più a fondo la propria tradizione e ritrovarvisi, nonostante i difetti degli uomini.
Scanziani era interessato anche alla scienza e certe sue opere come “Avventura dell’uomo” hanno una forte impronta scientifica. Come poteva convivere questo suo interesse con la ricerca mistica?
Piero era affascinato soprattutto dal dibattito tra spiritualità e scienza e ciò traspare in molte sue pagine, come appunto nel saggio “Avventura dell’uomo”. Ma pur essendo attratto dalle conoscenze che derivavano dalle scoperte scientifiche, non si sentiva di aderire completamente al darwinismo che imperava allora come oggi. Diceva spesso che la scienza deve essere veramente scientifica e che tutta la teoria dell’evoluzione non gli sembrava avere basi molto rigorose. Per tornare ad “Avventura dell’uomo” la prima pubblicazione del saggio, nel 1957, fu fatta a puntate su un giornale molto apprezzato a quei tempi che era “Il Tempo illustrato”. Sulla scia del grande successo si lanciarono altri editori ed ebbe inizio così quel movimento che doveva poi trasformare le edicole italiane in minuscole librerie. I lettori prenotavano il giornale all’edicola e molti scrissero a Piero, a volte convinti che fosse un medico. Alcune di queste lettere sono poi state pubblicate in una edizione successiva di “Avventura dell’uomo”. Un’altra prova del suo interesse per le scienze e per la natura fu la sua attività di cinologo che lo portò a ricreare la razza del mastino napoletano. Questa sua passione per i cani spesso non è nota a chi lo conosce come scrittore. Ma Piero non era affascinato solo dai cani; in “Avventura dell’uomo” traspare anche il suo interesse per le piante e persino per i cristalli e la loro vita segreta che a quei tempi pochi conoscevano. Se avesse potuto, gli sarebbe piaciuto vivere in una fattoria, circondato da piante e animali.
Nel 1985 e nel 1986 Piero Scanziani è stato finalista al Premio Nobel per la Letteratura. Chi lo propose?
Lo studioso delle religioni Mircea Eliade costituì e presiedette un comitato che sottopose la candidatura di Piero al Nobel. Conservo una lettera autografa di Eliade che esprime la sua ammirazione per le sue opere e in particolare per “Libro Bianco”. In quei due anni nessun candidato italiano arrivò finalista al Nobel per la Letteratura e il corrispondente del Corriere della Sera da Stoccolma commentò che c’era comunque un finalista di lingua italiana, anche se si trattava di uno svizzero.
Tra le ultime opere di Scanziani figurano quattro libri di consigli sull’arte di invecchiare bene, di mantenersi in salute e anche di guarire. Alcuni di questi libri sono stati scritti in collaborazione con lei. Come è arrivato a trattare questi temi?
Quando aspettavo il nostro unico figlio, Piero ebbe una disavventura terribile, un blocco intestinale e dovette essere portato d’urgenza al Pronto Soccorso e operato. La cosa si risolse rapidamente in quanto si trattava di vecchie aderenze dell’operazione di appendicite che aveva subito da bambino. Tuttavia mentre si trovava nell’incertezza, Piero disse a sé stesso che se fosse guarito avrebbe raccolto tutti gli appunti che aveva preso nel corso della vita sulla salute, sulla longevità e sulla guarigione e ne avrebbe fatto tre libri. Questi tre libri uscirono sotto forma di dialogo tra me e lui, ma scritti solo da lui. Un quarto libro, intitolato “La stanza dei bottoni” fu invece scritto a quattro mani. Si tratta di un libro sul metodo della Psychognosis che Piero aveva elaborato sulla base dei suoi studi e appunti. La Psychognosis è una sorta di training autogeno, tratto da varie tecniche di suggestione positiva da praticare nel dormiveglia, il mattino o la sera. È stato dimostrato scientificamente che queste tecniche aiutano molte persone ad affrontare meglio le vicissitudini che possono incontrare nel corso della giornata. Come ho detto, si tratta di un libro scritto a quattro mani, estraendo dal racconto in cui era immersa nella trilogia la parte teorica della tecnica ed esponendola sistematicamente in tre corsi.
Lei stessa ha scritto su di lui?
Sì, ho scritto un libro intitolato “La vita come frontiera”. Si tratta della rielaborazione della tesi di dottorato in lettere che ho presentato all’Università di Roma. Alcuni amici, tra cui il critico Vittorio Vettori mi hanno incoraggiata a trasformare il primo testo, che ovviamente aveva un taglio scientifico, in un libro adatto al grande pubblico. “La vita come frontiera” è uscito nel 1988 ed è una sorta di biografia-autobiografica poiché ho raccolto le indicazioni autobiografiche contenute nelle opere di Piero e perfino nei suoi appunti, dandogli per così dire la parola.