Mito e mentalità moderna
Che senso ha il mito per l’uomo moderno? È un racconto ingenuo, testimonianza della mentalità “magica” dell’uomo primitivo, è portatore di una verità psicologica profonda, o addirittura testimonia del collegamento dell’umanità con qualcosa di più grande che oggi dovremmo riscoprire?
La Grecia è un paese singolare: mediterraneo e geograficamente attaccato ai Balcani, una catena montagnosa avvolta nella leggenda e nella magia. La Grecia, baciata dal sole, è la patria della saggezza occidentale. Il suo fulgore acceca chi le si avvicina senza la prudenza e il rispetto dovuti alla sua geografia arida e salina e al suo patrimonio filosofico che si è diffuso in tutto il mondo.
Signora di un mare azzurro come il suo cielo, la Grecia è tuttora fonte di ispirazione, di seduzione, di fascino e di mistero, perché, se tutti possiamo leggere i testi lasciati dai suoi filosofi, è assai meno facile comprenderli veramente. Solitamente, di fronte a questi testi, si tenta di non perdere la faccia e si cercano interpretazioni accettabili per il collettivo e tali da riflettere i concetti eruditi del nostro tempo e i valori di moda.
Un buon esempio di questa ricerca di consenso nell’interpretare un enigma plurisecolare è lo studio dei miti presenti nelle opere di Omero e di Esiodo. A dispetto di tutti gli sforzi di interpretazione, questi racconti rimangono ermetici, almeno per quanto riguarda la loro essenza e ciò che quest’ultima ha di ambiguo.
Un altro esempio porrebbe l’essenza stessa della Grecia, l’aura mitica che la circonda e l’eredità che ha lasciato, espressa in modi diversi, anche nel quotidiano moderno. L’eredità greca tocca le radici stesse delle conoscenze e del comportamento occidentali. A dispetto di tutti gli sforzi eruditi, l’immaginario moderno, figlio della Grecia, si ispira sempre a una promessa formulata e ancora non mantenuta. In queste riflessioni vorrei affrontare una parte anche minima di questa fonte dell’immaginario moderno, cercandone le correlazioni nei fatti della vita quotidiana.
I miti greci ipotizzano chiaramente un universo simile a un infinito laboratorio, dove civiltà “superiori” (gli dei dell’Olimpo) esercitano il diritto atavico di generare altre civiltà “minori” parallele alla loro dimensione. I miti ci pongono di fronte all’enigma delle nostre origini: Siamo terrestri o celesti? O siamo entrambe le cose? La prima ipotesi, sostenuta da una certa letteratura ufologica, attribuisce l’origine dell’homo sapiens (la cui esistenza è considerata a tutt’oggi discutibile) a migrazioni di civiltà provenienti da altri pianeti della nostra galassia. Questi esseri, dotati di intelligenza superiore, ma appartenenti sempre al nostro universo, avrebbero dovuto abbandonare il loro pianeta d’origine che avrebbero condotto alla distruzione infrangendo le leggi cosmiche. Essi avrebbero lasciato quale eredità ai loro discendenti un tragico destino di cicliche costruzioni e distruzioni facendo di loro esseri il cui libero arbitrio costituisce in effetti una condanna.
L’ipotesi di un’origine celeste dell’umanità presuppone invece l’esistenza di un universo parallelo, dal quale gli dei, o esseri quasi perfetti, avrebbero generato un universo imperfetto (il nostro). La relazione tra il primo e il secondo sarebbe simile a quella che esiste tra gli dei e un creatore più che perfetto. Quest’ultima ipotesi contempla anche la possibilità di accoppiamenti tra gli abitanti dell’universo parallelo ed esseri umani, dai quali sarebbe nata una stirpe mista, nella quale la fragile natura umana sarebbe costretta ad aggiustamenti per adattarsi alla parte genetica “divina”.
Queste due ipotesi sembrano assurde, eppure tutta la cultura dell’antica Grecia è permeata dalla presenza degli dei e dalle loro frequenti intromissioni negli affari degli uomini. Inoltre, tutta l’antichità è stata dominata da una concezione ciclica del tempo che può essere vista come un bisogno di riportare ogni cosa al mitico tempo degli dei. Come spiegare tale apparente controsenso?
L’uomo nasce con una innegabile intuizione dell’esistenza di qualcosa di più alto di lui. Persino i popoli considerati come più “primitivi” hanno sempre qualche oggetto, animato o inanimato, cui attribuiscono una valenza sacra. Senza usare mezzi termini, si potrebbe dire che l’essere umano nasce con un codice genetico che lo predispone all’idolatria. Forse persino gli animali possiedono questo senso di timore reverenziale nei confronti di qualcosa. Basti pensare ai comportamenti rituali che accompagnano l’accoppiamento, o alla modalità immutabile con cui si effettuano certe migrazioni, alcune addirittura con una precisione temporale impressionante.
Nell’uomo il bisogno elementare di venerare qualcosa è stimolato da un fattore di molto più raffinato e radicato nella parte più segreta della sua natura. Diremmo che negli esseri viventi esistono due spazi distinti: il primo sentito istintivamente, che chiameremo spazio religioso e il secondo, molto meno definito, che chiameremo spazio sacro. D’altro canto l’esistenza in tutti i suoi ambiti è ritualistica. La natura è un laboratorio diviso in compartimenti che obbediscono a leggi apparentemente precise. Noi stessi siamo vincolati a un sistema analogo e assumiamo tutti un comportamento simile, senza grandi variazioni indipendentemente dal fatto che viviamo in una metropoli moderna o nella giungla sperduta: tutti noi dormiamo, ci svegliamo, mangiamo, lavoriamo, amiamo e guerreggiamo.
Basta studiare la storia delle civiltà per scoprire che, entro certi limiti, le reazioni umane sono rimaste sempre le stesse rispetto a qualcosa di più alto che viene sia accolto come amico o respinto come nemico. È pure curioso che gli esseri veramente “creativi” compaiano solo raramente, in determinate epoche ricordate proprio per queste apparizioni. Questi esseri possiedono un coefficiente d’intelligenza di un registro più alto di quello degli esseri umani normali. Quindi possiamo dire che una massa considerevole dell’umanità agisce in modo ripetitivo e si inserisce in un ambiente naturale regolato da ritmi monotoni e da leggi immutabili.
Nonostante ciò esiste l’idea diffusa di civiltà antichissime, potenti e ricche di prestigio. La letteratura detta dell’insolito, che parla di fatti misteriosi e inspiegabili riscuote un successo notevole. E tutto questo a dispetto delle nostre convinzioni intellettuali e religiose che ci vietano tali speculazioni e che si basano sulle opinioni autorevoli dei notabili che ci elargiscono cultura e comprensione. Tutti noi ci limitiamo a preoccuparci delle nostre vicende quotidiane, lasciando a chi di dovere la gestione delle idee, degli ideali e delle cause. È vero che ci consideriamo attivamente partecipi dell’etica della vita in infiniti modi propri a ciascuno, ma non ci rendiamo conto, o preferiamo ignorare, che questi stessi modi sono inficiati da accomodamenti e compromessi. Accettiamo il concetto di cicli che segnano ascese e decadenze riconoscibili e a dispetto di ciò abbiamo l’illusoria pretesa di considerare sorpassati quelli che ci hanno preceduto. A dire il vero il concetto di progresso storico non sembra intaccare in modo determinante la profonda ciclicità degli esseri umani, il che conferisce al mito un misterioso potere.
Man mano che il progresso rende la vita più aggressiva, il tempo che ci rimane per pensare diminuisce e quello in cui possiamo meditare scompare del tutto. Legati come siamo ad abitudini e modalità millenarie sedimentate in concetti, precetti, leggi e morale e codificati in sequenze sistematiche, confondiamo la tradizione con la storia, la fede con le religioni e le dottrine con le ideologie. Sintetizziamo l’amore nel matrimonio, la posterità nei figli e l’eroismo nel patriottismo.
Ripetiamo parole senza tentare di comprenderne il significato profondo e il più delle volte, se non proprio sempre, ci lasciamo convincere di essere noi a decidere. Conosciamo il piacere dell’auto-commiserazione e la tendenza infantile a inorgoglirci di noi stessi, il più delle volte senza un valido motivo. In fondo, se facessimo un esame di coscienza assolutamente sincero, scopriremmo una paura latente e generalizzata, una tormentosa insicurezza e un certo inspiegabile sentimento di insoddisfazione e di deprivazione. Siamo retti da modelli di valori che ci fanno giudicare tutto con opinioni conformi alla mentalità collettiva. Nascondiamo le nostre vere inclinazioni per timore del giudizio degli altri. Preferiamo sempre essere d’accordo con la maggioranza piuttosto che essere considerati marginali.
I cosiddetti problemi sociali, che vanno dalla criminalità alle difficoltà d’inserimento, diventano temi di tesi sociologiche, di esortazioni teologiche, di discorsi politici, di elucubrazioni filosofiche, il tutto senza un’indagine approfondita sulle radici del problema, sul perché delle divergenze millenarie che hanno sempre portato i vari popoli ad assumere posizioni ostili gli uni agli altri e a portarle avanti fino alle estreme conseguenze. Nessuno sembra notare che probabilmente queste divergenze non sono una questione di opinione ma nascono dalla natura stessa dell’umanità.
Le leggi ataviche sono l’effetto di remote eredità genetiche che iscrivono nell’essere umano stesso il delirio di una conquista basata sulla polarità e sulla divisione, tale da perpetuare un perenne “stato di conflitto”. Il meccanismo della conflittualità parte dalla vita quotidiana, che può essere vista come faticosa o piacevole, fino alle guerre, che possono risultare devastatrici o portare dei cosiddetti vantaggi quando l’insicurezza degli uni favorisce l’avidità degli altri.
L’ipocrisia o l’incoscienza ci porta a vedere nel carattere umano dei tratti creati dalle nostre illusioni piuttosto che le sue caratteristiche reali e finiamo con il promuovere un amore fittizio, un moralismo intellettuale e una “fratellanza” forzata. A tutto ciò si aggiunge il conflitto tra timore religioso e intelletto pragmatico.
La speranza di poter vivere la nostra esistenza e di esistere nella vita sono due utopie che passano inosservate o che vengono nutrite dalla vaga speranza di un raggiungere un giorno una meta gratificante.
Tutto ciò ci allontana da noi stessi, dalle molte interpretazioni del nostro io più intimo: in altre parole dalla nostra verità, poiché è in noi che risiede il fulcro di tutto quanto avviene attorno a noi, dei conflitti tra opposte ragioni e delle vite moltiplicate.
Nel nostro cervello, programmato per vivere la divisione, si nasconde l’unità dell’essere e dello stare in una verticalità che crediamo di aver conquistato perché pensiamo che per essere verticali basti camminare su due piedi.
Lo spazio sacro dell’uomo risiede nel pensare in modo libero e senza ostacoli, nel riconoscere i propri limiti e nell’usare la razionalità quale base per raggiungere la trascendenza. Perché comunque è urgente e necessario che ci interroghiamo sulle nostre origini e sui punti oscuri della nostra storia.
Dobbiamo cercare di fare letture diverse e soprattutto di capire che ogni indagine, da quella della scienza di punta all’analisi del semplice quotidiano sono in fondo la ricerca di ciò che abbiamo perduto. Coltivare lo spazio sacro della ragione è la sola ricerca gratificante anche se a volte può spaventare. L’uomo è una forza occulta e disprezzata perché ha dimenticato sé stesso. È un dio che cerca la divinità nel mondo esterno e si disperde. È il tabernacolo di una divinità sconosciuta, crocifissa sul corpo dell’essere umano.
Profanando la lettura dei miti, direi che questi racconti sono una specie di scienza che intreccia matematica e fisica con basi biologiche, il tutto unito a nozioni eretiche di sofisticata antropologia. Gli antichi regolavano le proprie azioni sui numeri, basti pensare ai rituali, al concetto di hybris e al numero d’oro dei greci, lasciando da parte tutti i condizionamenti socioculturali. La loro vita anche se in modo non sempre evidente, era regolata dalla conoscenza dei numeri. Sono i numeri che stabiliscono e mantengono la relazione precisa tra il mondo degli uomini e quello degli dei. L’uomo arcaico fa sempre in modo di mantenere viva e presente la relazione con l’Alto. Per lui la realtà concreta del mondo degli uomini non è antitetica al mondo degli dei, ma piuttosto scambio continuo con esso, poiché non vi è relazione a senso unico. Lo scambio mantiene intatto l’ordine delle cose.
Anche se siamo diversi dagli antichi, viviamo comunque sotto lo stesso cielo. Per noi esso non è più abitato dagli dei dell’Olimpo, ma dalle stelle. Non regoliamo la nostra vita in funzione di un Alto come gli antichi. Oggi abbiamo molti Alti che sostituiscono gli dei: i titoli accademici, il denaro, il potere e così via. Abbiamo i nostri miti esattamente come gli antichi, ma li abbiamo addobbati di travestimenti nuovi. Cambiamo i nomi, ma continuiamo a collegare certe persone con le “alte sfere” sociali, cercando qualche tipo di relazione arcaica che ci aiuti a ritrovare la nostra essenza, per capire chi siamo, da dove veniamo e dove andiamo.
Il mito non è solo un racconto, è una formula alchemica la cui comprensione dipende dal grado di Amore presente in ciascuno di noi. L’Alchimia è la scienza che mira a spiritualizzare la materia e a materializzare lo spirito. È una formula che non parla di due dimensioni distinte ma di un’unica realtà in continuo flusso dall’Altro verso il Basso e viceversa.
Questo era il modo di vivere degli antichi e noi manteniamo intatta la stessa intenzione. Nonostante il cambiamento brutale che è avvenuto nella mentalità umana nel corso dei secoli, l’immutabile volontà dell’uomo di unirsi alle stelle del Cielo è ancora in gran parte incolume e immutata.
Loryel Rocha